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Il minimo comun denominatore di HYPERVENEZIA

Il minimo comun denominatore di HYPERVENEZIA

Mercoledì 12 Gennaio 2022 Ore 15:00

VENEZIA- Si è concluso nei giorni scorsi a Palazzo Grassi “HYPERVENEZIA”, un evento espositivo dedicato alla città di Venezia in occasione dei 1600 anni dalla sua fondazione, per presentare per la prima volta al pubblico l’ambizioso “Venice Urban Photo Project”, ideato e realizzato da Mario Peliti. Una visita estremamente interessante anche per il turista fiorentino, date le numerose somiglianze che accomunano le due città.

La mostra, inaugurata nel settembre 2021, curata da Matthieu Humery, conservatore presso la Collection Pinault, ha proposto un allestimento immersivo al primo piano espositivo attorno a tre istallazioni: un percorso lineare di circa 400 fotografie che ripercorrono un ideale itinerario per i sestieri di Venezia, un’installazione video di oltre 3.000 fotografie che scorrono accompagnate da una composizione musicale inedita realizzata per la mostra dal noto compositore Nicolas Godin, membro del duo “Air”, e una mappa site-specific di Venezia composta da un mosaico di circa 900 immagini geolocalizzate che offrono una panoramica della città.

A partire dal 2006, Peliti inizia a mappare sistematicamente la città di Venezia con le sue fotografie, con l’obiettivo di raccogliere il più ampio e organico archivio di immagini della città mai realizzato e di restituire una rappresentazione inedita dell’intero tessuto urbano di Venezia nella sua complessità e continuità. A oggi l’archivio fotografico conta oltre 12.000 scatti, tutti rigorosamente in bianco e nero, realizzati a parità di condizione di luce, senza ombre portate, e soprattutto in assenza di persone. “HYPERVENEZIA” offre un’esperienza visiva radicale: la Venezia che conosciamo scompare e lascia emergere una Venezia parallela, vuota e atemporale. La Serenissima, presentata nella sua materialità pura, emana questa stranezza inquietante che caratterizza qualunque città rimasta senza abitanti.

Il bianco e nero di Peliti traccia una rappresentazione essenziale dell'immagine identitaria di Venezia. Nel senso che l'inquadratura degli infiniti scorci urbani, accomuna tuttavia in uno standard compositivo gli scatti, che ritraggono le strutture architettoniche, per lo più facciate, quasi mai frontalmente, ma con diagonali che drammatizzano l'inquadratura.

E' questo forse il tentativo programmatico dell'artista: individuare l'essenza caratteristica della città negli elementi architettonici più ricorrenti del paesaggio, sorta di minimo comun denominatore di una iconografica Venezia, della quale Peliti prova a svelare il segreto. Saranno le imposte in legno, rettangoli scuri nelle foto, che contrassegnano le facciate chiare dei palazzi? Oppure la quadrettatura dei selciati tipici dei campielli? Senza dimenticare le cisterne di acqua dolce a cui la comunità attingeva da quelli che solo apparentemente paiono pozzi artesiani?

Sta di fatto che che Peliti prova a sintetizzare la difficile risposta a un enigma eterno, con una risposta in bilico tra elaborazione statistica di una base dati digitale e intuizione alchemica dell'artista antico.

Resta comunque, aldilà del lavoro antropologico, la poesia visiva della composizione di forme, in cui le combinate strutture architettoniche di Pelini finiscono per assomigliare a moderne nature morte, assimilabili ai vasi con cui Giorgio Morandi componeva l'urbanistica della propria astrazione.

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