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La festa di San Giovanni Patrono di Firenze

La festa di San Giovanni Patrono di Firenze

Il Patrono

La scelta di San Giovanni Battista quale patrono della città di Firenze avvenne nel VI secolo durante il dominio Longobardo. Fu la regina Teodolinda che lo scelse in veste di protettore del proprio popolo e delle città sottomesse al suo governo.

A Firenze intanto si costruiva uno splendido Battistero dedicato a San Giovanni Battista.

Le origini della festa, le mostri i ceri

I primi festeggiamenti a Firenze in onore del Santo Patrono iniziarono a partire dal XIII secolo il 24 giugno data della nascita del Battista. Da quel momento il Battistero insieme alla Cattedrale divennero il centro nevralgico della festività religiosa.

Il programma delle celebrazioni prevedeva la cerimonia d'avvio tre giorni prima dell'evento. Il giorno 21 iniziavano le processioni dei quattro quartieri della città, il giorno successivo un corteo composto da alti funzionari e dalle magistrature delle arti maggiori si recava al Battistero per depositare le offerte, il giorno 23 era la volta della solenne processione di tutti gli ordini religiosi e delle confraternite con i loro stendardi, reliquari e ricchissimi paramenti sacri. Nello stesso giorno le botteghe dell'Arte della Lana e della Seta, esponevano in Calimala i prodotti più belli dell'artigianato fiorentino quali stoffe preziose, drappi di filo d'oro, finissimi broccati di seta e velluti di ogni foggia e colore. La “mostra” richiamava una infinità di persone, anche provenienti dall'estero, che procuravano alle Arti incassi per migliaia di fiorini d'oro.

Il 24, giorno della solennità, una folla immensa si riversava presso il Battistero per assistere ai rituali che iniziavano con l'arrivo del corteo della repubblica con in testa i Capitani di Parte Guelfa, seguiti dagli ambasciatori e rappresentanti forestieri. Sfilavano i membri della Signoria, il Podestà e il Capitano del Popolo con le loro insegne seguiti da tutti i rappresentanti delle deputazioni delle Arti con i loro stendardi. Terminata la sfilata, si assisteva alla cerimonia più attesa: l'offerta dei ceri. Questa iniziava con l'arrivo delle compagnie nobili di tutti i quartieri, ciascuna con il proprio gonfalone, recanti pesanti ceri posti su grandi carri a forma di torre trainati da buoi. I ceri, di finissima produzione, arricchiti con incisioni e decori, venivano offerti alla chiesa i cui membri provvedevano all'accensione davanti al sagrato del Battistero per poi porli al suo interno. La festa proseguiva in tutti i quartieri fino a notte inoltrata con canti e balli all'aperto sulle strade e le piazze cittadine alle cui finestre erano esposti drappi, stendardi e bandiere, illuminati dalla luce di migliaia di candele.

Ancora oggi l'intera cerimonia, con i suoi cortei e le sue processioni, si svolge nello stesso luogo con le medesime modalità dell'antica tradizione.

Un torneo scomparso, il Palio dei Cocchi

Nel periodo granducale, alla vigilia del 24 giugno di ogni anno, nel quadro dei festeggiamenti patronali, si correva il Palio dei Cocchi che si svolgeva all'interno di piazza Santa Maria Novella.

Il Palio, istituito da Cosimo I de' Medici nel 1563, era una gara ippica che emulava le corse delle antiche bighe romane. Alla gara si predisponevano alla partenza quattro tipi di carrozze addobbate sontuosamente, distinte nei quattro colori dei quartieri: rosso, azzurro, verde e bianco, trainate da coppie di cavalli bardati con finimenti di corrispondente colore. Alle due estremità contrapposte della cornice di gara venivano posizionate due grandi piramidi di legno che segnavano il limite del percorso ellittico. Tutte le finestre della piazza erano parate a festa con tessuti , arazzi e stendardi, mentre le tribune, alzate per l'occasione, erano gremite dalla folla fino all'inverosimile. Si assisteva a un grande sventolio di bandiere e vessilli mentre l'eco delle grida, che incitavano a gran voce i concorrenti, si propagavano anche nelle zone circostanti. I granduchi con le autorità e la corte prendevano posto su una tribuna decorata con paramenti di velluto rosso, posta al centro di un lato della piazza. Al suono delle trombe un araldo, dopo avere ricevuto l'assenso dal granduca, dava il via alla corsa. La corsa si svolgeva sulla distanza di tre giri in una atmosfera “rovente” nella quale i cocchieri, lanciando i cavalli in un galoppo sfrenato, cercavano di superarsi con audaci ed azzardate manovre incitati dalle urla inneggianti della folla. Al termine della corsa, al vincitore veniva consegnato un drappo di velluto rosso finemente decorato che costituiva il Palio, messo a disposizione dai Capitani di Parte Guelfa.

La tradizionale corsa terminò il suo ciclo nel 1858 dopo quasi tre secoli di vita.

Le piramidi in legno che all'inizio delimitavano la piazza durante la corsa, furono sostituite nel 1608 da due “aguglie”, obelischi in marmo mischio di Seravezza, lavorati da Raffaello e Giovanni Maria Carli sotto la supervisione di Bartolomeo Ammannati. Le “Aguglie” si appoggiavano su un basamento composto da quattro tartarughe in bronzo opera del Giambologna o per altre fonti del Tacca. Gli obelischi, oggetto di numerosi restauri reiterati nel tempo, fino all'ultimo effettuato nel 1960, sono quelli che ancora oggi si osservano sulla piazza Santa Maria Novella a ricordo e testimonianza dello storico evento.

Il calcio in costume

Fra le altre manifestazioni in onore del Santo Patrono si svolge, il 24 giugno di ogni anno in piazza Santa Croce, la finale del torneo di Calcio storico che prevede la partecipazione di due delle quattro squadre, espressione dei quattro quartieri della città: Azzurri di Santa Croce, Bianchi di San Frediano, Verdi di San Giovanni e Rossi di Santa Maria Novella.

La data del 24 giugno fu fissata dalle autorità cittadine nel 1930, quando si volle riportare alla memoria dei fiorentini la partita di “Calcio in Livrea” che si era svolta fra Verdi e Bianchi: il verde della speranza e il bianco della purezza, nella stessa piazza Santa Croce il 17 febbraio del 1530. Questa leggendaria gara aveva avuto luogo nel momento in cui le truppe imperiali di Carlo V, che avevano posto in assedio la città dal 17 ottobre del 1529, stavano per sferrare l'attacco decisivo per la conquista della città e riportare a Firenze la Signoria medicea.

Il coraggio e l'astuzia della Repubblica fiorentina di far credere di disputare la gara in un clima di festa, nonostante la grave situazione al limite della resa in cui si trovava, ebbe il potere di mettere in imbarazzo i comandi delle truppe imperiali, i quali saputo dell'evento pensarono a una città ben organizzata e consapevole della sua forza difensiva. L'Imperatore Carlo V, valutando questa situazione decise, vista anche la stanchezza e le gravi perdite subite dalle sue truppe, di rinunciare alla conquista di forza venendo a patti con la Repubblica fiorentina, la quale non poté evitare l'ingresso delle truppe imperiali, ma ciò avvenne in un clima di resa con onore senza spargimenti di sangue saccheggi e distruzioni.

I “fochi”

Nel periodo medievale, fino a circa metà del Trecento, i “fochi” di San Giovanni si svolgevano sotto la loggia dell'Orcagna in Piazza della Signoria. Non si trattava di fuochi d'artificio, non ancora inventati, ma di fiamme che si alzavano dall'interno di grosse vasche metalliche disposte sul piano della loggia alimentate da fascine di paglia e di scopa. Alte lingue di fuoco si levavano da altri bacili ripieni di grasso di sego, posizionati sugli spalti di Palazzo Vecchio e ai bordi della piazza che, illuminando l'area, formavano una suggestiva e spettacolare scenografia. La notte del 24 di giugno, tutta la città era rischiarata dalla luce dei falò di centinaia di torcere, mentre dalle colline si propagavano tutt'intorno una infinità di luci e di bagliori stringendo la città in un “luminoso e caloroso” abbraccio. Dopo la metà del Trecento con la scoperta della polvere da sparo, cessò l'usanza dei falò in città, mentre la stessa rimase in uso più a lungo nel contado. L'invenzione della polvere pirica, quella utilizzata per scopi pacifici, dette il via alla produzione dei fuochi pirotecnici che non tardarono ad affermarsi a partire dal XV secolo per poi consolidarsi nel secolo successivo. Molti artisti di fama fecero a gara per costruire ingegnose macchine atte a produrre strabilianti scenografie fatte di razzi e girandole da presentare ai fiorentini in Piazza della Signoria. L'architetto e scultore Raffaello del Riccio detto il Tribolo, fu uno dei più attivi. In piena epoca granducale altre sorprendenti invenzioni di girandole, cascate di fuoco ed altre “diavolerie” avvennero per merito di Bernardo Buontalenti che non a caso fu appellato “Bernardo delle girandole”.

Nei secoli successivi l'evoluzione della tecnica e la scoperta di formule migliorative della polvere pirica non fecero altro che rendere ancora più spettacolari le manifestazioni pirotecniche.

Nel 1826, i primi “fochi” come li vediamo oggi, furono esplosi in Piazza della Signoria prima che venissero spostati nel secolo successivo al piazzale Michelangelo, dove tutt'ora grazie alla Società di San Giovanni, il 24 giugno alle ore 22 di ogni anno, il mirabolante spettacolo delizia i fiorentini in questa magica notte d'estate.

Il detto “San Giovanni un vole inganni”

Questo popolare motto fiorentino si riferisce al Fiorino, la moneta che fu la più famosa e usata al mondo già in circolazione dal 1252. Si trattava di una moneta in oro a 24 carati, del peso di 3,54 grammi. Al diritto aveva impresso il Giglio fiorentino e al rovescio l'effige di San Giovanni Patrono della città. Il controllo sulla integrità della moneta, da parte delle autorità, era rigoroso e costante, pene severissime venivano comminate a coloro che avessero tentato ogni sorta di alterazione. Nonostante ciò, nel corso del tempo, furono scoperti falsari che, limando il bordo liscio esterno, potevano ricavare, per uso proprio, la preziosa polvere d'oro che veniva poi trasformata in lingotti. Una volta tagliate le mani agli impostori, era questa la pena prevista dalla legge, gli Ufficiali della Zecca misero in circolazione un nuovo conio con il bordo zigrinato a garanzia dell'integrità della moneta, facendo così cessare le falsificazioni e restituendo al Fiorino il suo effettivo valore. Il famoso detto fiorentino “San Giovanni un vole inganni” stava a significare che la purezza della moneta era garantita dalla purezza del Santo la cui immagine non doveva mai più essere oggetto d'inganni.

Testo di Silvano Caciolli

Cose da fare a Firenze