• Seguici su
  • Registrati | Login

    Registrati per conoscere in esclusiva i migliori eventi in città, salvarli tra i preferiti, condividerli con gli amici e giocare, ogni mercoledì, per vincere biglietti per concerti e teatri. Fallo subito!

Quel giorno sul Ponte Vecchio...

Quel giorno sul Ponte Vecchio...

Lo sfratto dei Beccai

La mattina del 25 settembre del 1593 il granduca Ferdinando I dei Medici, mentre sta percorrendo il corridoio sovrastante il Ponte Vecchio che il padre Cosimo I aveva fatto costruire dal Vasari nel 1565, viene investito, per l'ennesima volta, dal fetore insopportabile emanato dalla lavorazione delle carni che i beccai (da becco, maschio della pecora) macellano, con poca osservanza delle regole, per poi gettare gli scarti e i rimasugli nelle placide ma non proprio olezzanti acque dell'Arno.

Il granduca, di pessimo umore, avendo anche da tempo osservato sul ponte: la sporcizia, la mancanza di decoro delle botteghe e la volgarità di certi loro proprietari, affretta il passo e appena giunto nel suo studio di Palazzo Vecchio, obbliga i Capitani di Parte Guelfa a emanare un decreto nel quale viene stabilito che tutti gli artigiani e commercianti delle “Arti vili” (con riferimento ad alcune delle Arti minori di epoca medievale) presenti sul ponte «luogo assai frequentato da gentiluomini e forestieri»debbano essere sfrattati dalle loro sedi.

L'effetto di quel decreto si concretizzò alcuni mesi più tardi, quando tutti gli sfrattati che da un censimento risultavano: 3 beccai che occupavano gli spazi più ampi, 3 pizzicagnoli, 2 biadaioli, 5 calzolai, 2 legnaioli, 1 bicchieraio, 1 merciaio e una decina di venditori di generi diversi, compresa una osteria effigiata con l'insegna di un drago, furono definitivamente trasferiti in una sorta di “rendez-vous”, al Mercato Vecchio (ora Piazza della Repubblica), dove già vi avevano operato per un breve periodo, dal 1430 al 1442, data in cui, su richiesta di nobili e potenti famiglie che abitavano intorno al Mercato e che mal sopportavano i disagi causati da tali “vili attività”, erano stati fatti tornare sul Ponte. Per i beccai e gli esponenti delle altre attività, era stato un vero “ritorno a casa”, perché sul ponte avevano avuto abitazioni, botteghe e laboratori a partire dal 1350 fino a tutto il terzo decennio del quattrocento. Essi stessi avevano nel tempo ampliato i loro spazi, costruendo le tipiche casette puntellate da pali o mensole di legno che ancor oggi determinano la caratteristica e la peculiarità del ponte.

L'arrivo dei gioiellieri

Ferdinando ebbe il merito, con quel decreto, di contribuire a eliminare il degrado ambientale che durava in quel luogo da secoli e di riconsegnare al Ponte Vecchio, e quindi alla città intera, la dignità, il decoro e il prestigio che, per la sua storia ed il suo valore architettonico, esso meritava.

Essendo in quel periodo Palazzo Pitti la dimora ufficiale del granduca e, di conseguenza, meta di visite da parte di famiglie reali, dell'alta nobiltà e della borghesia più rappresentativa nazionale e internazionale, il passaggio sull'antico e glorioso ponte doveva potersi svolgere in maniera tale da suscitare espressioni di ammirazione e meraviglia.

Ebbene, cosa meglio dell'oro, dell'argento e delle pietre preziose potevano adornare quelle botteghe lungo i due lati del ponte, illuminate dai bagliori delle gemme e dallo splendore dei metalli.?

Dunque, il 2 maggio del 1594, 41 orafi e 8 gioiellieri, che fino a quel momento occupavano con i loro laboratori e botteghe la zona di Porta Rossa, dove venivano esposti e venduti i pregiati manufatti, presero possesso degli angusti ma preziosi fondi lasciati liberi sul Ponte Vecchio e iniziarono, nel nuovo contesto, la loro attività di “mercato dei gioielli” giunto fino a noi in uno dei luoghi più rappresentativi e più belli al mondo.

Gli “ammazzatoi” e i problemi sanitari

Durante la stabile attività dei “beccai” sui banchi del Mercato Vecchio, attività di primaria importanza per la vita quotidiana, i problemi igienici sanitari legati allo smaltimento degli scarti di lavorazione continuarono a manifestarsi ancora per lungo tempo, nonostante la promulgazione di nuove leggi e regolamenti per migliorare la situazione. Per il ristretto numero dei luoghi adibiti ad “ammazzatoi”, si ricorreva spesso al macello su strada e, per l'insufficienza del reticolo di condotte necessarie per la raccolta delle acque reflue e a causa della vetustà dell'antico fosso Scheraggio (collettore di quel che restava della cloaca maxima romana) si impose la necessità di proseguire a sbarazzarsi dei rifiuti gettandoli nelle acque dell'Arno.

Si assisteva così al frequente passaggio di carri che, attraversando le vie centrali della città in direzione del fiume, lasciavano dietro di loro una insalubre e maleodorante scia prodotta dai rifiuti che, una volta giunti al Ponte alla Carraia, venivano consegnati alla corrente dell'Arno con il compito di allontanarli dalla città.

La svolta del 1837 al tempo di Leopoldo II di Lorena

Una svolta, da lungo tempo desiderata nella soluzione dei secolari problemi igienici sanitari, si ebbe nel periodo “illuminato” dei Lorena, quando nel 1837, sotto il governo granducale di Leopoldo II, fu creato, da un progetto dell' ing. Flaminio Chiesi, il «fognone maestro di Gusciana», nei pressi dell'odierna piazza Tasso e il collettore centrale per lo smaltimento refluo delle acque a valle della città, seguito dalla inaugurazione avvenuta il 1° Ottobre del 1838 del primo grande macello pubblico cittadino nei pressi dell'attuale piazza Verzaia in San Frediano. Con questa istituzione si arrivò finalmente ad organizzare al meglio l'approvvigionamento delle carni per mercati e botteghe, un regolare smaltimento degli scarti e dei rifiuti, mettendo fine alla pessima secolare situazione da sempre considerata al limite della sostenibilità.

Testo a cura di Silvano Caciolli

Cose da fare a Firenze