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Mi racconti il tuo 4 Novembre del '66?

Mi racconti il tuo 4 Novembre del '66?

“Qui arrivò l'acqua d'Arno il 4 novembre 1966”.

Il 4 novembre del 1966, l’Arno rompe gli argini e l’acqua, con la sua forza impetuosa, allaga tutta la città. Si immette nelle strade, nei vicoli, nelle case. Scoppiano le tubature, saltano i tombini. Firenze è inondata. Firenze è invasa dall’acqua. Firenze non è più Firenze. La nostra meravigliosa città, in poche ore, si è trasformata in un enorme fiume in piena. Il livello dell’acqua non sembra scendere e la paura è sempre più reale. Il rumore dell’acqua, le urla, i clacson. Poi un silenzio assordante: Firenze è invasa da ottanta milioni di metri cubi di acqua e fango.Da quella mattina del 4 novembre sono passati cinquant’ anni ma negli occhi di chi quella giornata l’ha vissuta, si legge ancora oggi tutta la drammaticità di quei momenti. Nelle parole, cariche d’emozione, si sente forte l’amore viscerale per una città messa a tappeto.

Roberto e la “Buca Mario”

La mattina del 4 Novembre, come ogni mattina, Roberto esce di casa per recarsi a lavoro. Fa il cameriere a Buca Mario, ristorante di proprietà del padre ed è lì che si sta dirigendo il 4 novembre del 1966, quando all’altezza della Biblioteca Nazionale, vede quello che poi capirà essere il risultato dell’esondazione dell’Arno. “Non mi resi subito conto della gravità della situazione, cambiai semplicemente percorso”. Imbocca i Viali, passa davanti alla Stazione di Santa Maria Novella per poi raggiungere il ristorante. Ancora l’Arno non è arrivato in quella zona. La notizia di una possibile esondazione dell’Arno salta di bocca in bocca ma non sembra attendibile e le attività del ristorante iniziano con la stessa regolarità di sempre. Si prepara la sala, si apparecchiano i tavoli, in cucina si iniziano le preparazioni per il pranzo. E’ giorno di festa, è un giorno buono per lavorare. Ci si aspettano molti clienti quel 4 Novembre del 1966 ma quel giorno non fu come i 4 Novembre passati, quel giorno arrivò l’acqua dell’Arno a bussare alla porta del Buca Mario. “La prima acqua arrivò dall’interno, erano saltate le fogne. Da quel momento in poi cominciammo a preoccuparci seriamente. Non sapevamo cosa fare, se chiudere o aspettare ancora. L’acqua continuava ad arrivare da via dei Fossi e l’ultima decisione fu quella di chiudere”. Roberto accenna un sorriso e prosegue il racconto. “Mi ricordo che sistemammo dei ballini alle porte esterne, con l’illusione che potessimo bloccare così l’ingresso dell’acqua”. Dopo aver lasciato la macchina sotto i portici di Santa Maria Novella, Roberto e i suoi genitori s’incamminano verso casa. In Piazza del Duomo l’acqua è già alta e non si può passare. Tornano indietro e chiedono ospitalità ad un amico fornaio che abita al terzo piano di un palazzo vicino al Buca Mario. “Ci affacciammo alle finestre e assistemmo all’ondata di piena. Da via del Sole arrivavano le auto che si ammassavano nel Cinema Ariston. Finivano tutte lì”. Quella sera Roberto e i suoi dormono a casa dell’amico fornaio. La mattina seguente, guardando dalla finestra dell’appartamento si accorgono che l’acqua non c’è più. “C’era una grande devastazione, finita l’ondata di piena era rimasto fango ovunque. Le strade erano sgombre dall’acqua, il ristorante invece era ancora sommerso. Io tornai a casa ed è lì che mi resi conto della grave situazione in cui si trovava la città. I giorni seguenti furono molto impegnativi, andavamo al ristorante insieme ai ragazzi dello staff per pulire le stanze dal fango. I frigoriferi, rimasti spenti per diversi giorni, erano colmi di cibo da buttare. Nell’ultima stanza trovammo un tavolo perfettamente apparecchiato. In mezzo a quella devastazione vedere quel tavolo con ancora tovaglia bianca e posate, fu impressionante. Lavorammo duro per molti giorni, con l’acqua all’altezza delle ginocchia. Mi ricordo la disperazione di mio padre che ripeteva: Firenze è finita, è finito tutto”. Ma non fu così, Buca Mario riaprì al pubblico il 15 dicembre del 1966. Niente è finito, Firenze ce l’ha fatta.

Silvano e la gioielleria sul Lungarno Acciaiuoli

Silvano si siede e inizia il racconto del suo 4 Novembre del ‘66. “Da pochi mesi abitavo in zona Le Cure. Avevamo lasciato la casa in cui ero nato, un ultimo piano di un palazzo cinquecentesco di Via dei Benci ”. Si ferma un attimo, fa ordine tra i suoi ricordi e continua: “Lavoravo presso un famoso negozio di gioielleria sul Lungarno Acciaiuoli. Il 4 novembre mi trovavo a casa perché era un giorno di festa. Mi alzai e dalla radio appresi la notizia di quanto stava accadendo in città. Le notizie erano frammentarie, contraddittorie. Non erano ancora sufficienti per capire davvero quello che stava accadendo alla nostra Firenze”. All'edicola vicino a “La Nazione” si dice che l'acqua sta cominciando a entrare dalle fenditure delle spallette invadendo i Lungarni. L’Arno ha esondato, l’Arno sta invadendo la città. “Provai a telefonare ai miei datori di lavoro ma le linee erano interrotte”. Passano due giorni e Silvano prova ad avvicinarsi al centro ma il suo tentativo fallisce. “Le strade erano ancora stracolme d’acqua e le autorità lasciavano passare solo gli autorizzati”. Attraverso i notiziari radio e le uscite dei giornali Silvano riesce a farsi un’idea abbastanza precisa del disastro che si era compiuto. “Il terzo giorno tentai di nuovo di raggiungere il centro. A piedi, munito di enormi stivali di gomma, riuscii ad arrivare”. Le parole di Silvano lasciano trapelare un filo d’emozione, ancora oggi.Con il cuore in gola percorsi l'ultimo tratto di Por Santa Maria e voltai su Lungarno Acciaiuoli… o quello che restava del Lungarno. Le spallette non esistevano più e metà della sede stradale era finita nel fiume”. Quello che Silvano si trovò davanti, quel giorno di novembre, è difficile e doloroso da immaginare. “Giunto davanti al negozio dove lavoravo mi trovai, come temevo, davanti ad una scena sconvolgente. La saracinesca era divelta e accartocciata da un lato, le vetrine esterne erano a terra, rovesciate. Un vero disastro. Nel retro del negozio il grosso armadio cassaforte, che pesava qualche tonnellata, si era spostato. Si trovava all’altezza dell’'uscita secondaria, situata nel fronte opposto”. In quel che resta del negozio, Silvano e i proprietari cercano di ricostruire quanto accaduto. Forse per dare un senso, per trovare una spiegazione a quel disastro naturale dalla potenza inarrestabile“L'acqua era entrata di prepotenza e si era portata con sé tutto quello che aveva trovato lungo il suo corso. Non riuscendo a sfogarsi verso l'uscita opposta, perché ostacolata dal grande armadio, aveva formato un grosso mulinello che fortunatamente aveva fatto ammassare gli oggetti al centro del locale evitandone la fuoriuscita. Una volta ritiratasi l'acqua aveva lasciato sul pavimento mezzo metro di fango melmoso e maleodorante”. Cosa fare adesso? Gli occhi stentano a credere a quella situazione paradossale. “Non ci resta che rimboccarci le maniche. Insieme ai proprietari e agli altri addetti ci organizzammo per ritrovare gli oggetti di oro e argento finiti nella melma. Con pale e secchi e una fioriera bucherellata recuperata per caso cominciammo a spalare il fango utilizzando la fioriera a mo’ di setaccio. Né più e né meno come i cercatori d'oro del Far West. Trovammo anelli, orecchini e spille. Poi fu la volta dei grossi oggetti in argento che furono recuperati più facilmente. Lavorammo per venti giorni poi tutto quello che era stato recuperato fu portato nell'abitazione dei proprietari per essere rimesso a nuovo manualmente, attraverso tecniche particolari di ripulitura e di restauro”. Il nuovo negozio ricostruito fu inaugurato alla fine di Marzo del 1967. Firenze ha vinto e si rimette in piedi.

Gianna e il laboratorio di Via Lanza

La mattina del 4 novembre del 1966, Gianna è a casa con i suoi genitori. E' un giorno di festa e, come ogni anno, avrebbero trascorso la giornata in famiglia. Sono poco più delle 7 del mattino quando il telefono squilla. "Era Renzo, un operaio di mio padre". Mario, il padre di Gianna, era un artigiano e aveva un piccolo laboratorio di borse di pelle per signora. Renzo vive a Rovezzano e dice che lì l'Arno ha dato di fuori. "Disse a mio padre di andare a controllare le pelli. Ne avevano comprate in grande quantità poco tempo prima ed era preoccupato che l'acqua potesse rovinarle". La famiglia di Gianna abita poco lontano dal laboratorio artigiano. Mario chiede a Gianna di accompagnarlo a controllare le pelli. "Mi chiese di andare con lui per spostare le pelli negli scaffali più alti, non potevamo immaginare la gravità della situazione". Le strade sono appena bagnate, fuoriesce un po' d'acqua dalle fogne, ma è tutto sotto controllo. Iniziano a spostare le pelli, Gianna e suo padre. "Un lavoro faticoso" confessa Gianna abbozzando un sorriso. "Solo verso le 8.30 l'acqua iniziò a salire. Mio padre mi disse di tornare a casa, avrebbe finito lui il lavoro e appena fatto sarebbe rientrato. Io ubbidii e tornai a casa". Gianna e la madre si mettono alla finestra dalla quale vedono sia l'entrata sia l'uscita del laboratorio. Si mettono lì e stanno in attesa. L'acqua sale, continua a salire e Mario non si vede uscire. "Stava succedendo qualcosa di incredibile, l'acqua arrivava come un torrente. C'era un silenzio spettrale. Si sentivano le grida di persone spaventate, ogni tanto il pianto di qualche bambino. Le auto parcheggiate si scontravano l'una contro l'altra rovesciandosi". La situazione adesso è grave. Mario non si vede e la paura inizia a farsi sentire. "Non capivo perché il babbo non tornasse, ero spaventata e seriamente preoccupata. Non riuscivo a staccarmi da quella finestra". Con l'acqua così alta Mario non può aprire la porta del laboratorio, la corrente lo travolgerebbe. L'unica via di fuga sono le finestre, chiuse con la sicura. Mario è pignolo e la piccola chiave che serve ad aprire la sicura delle finestre la tiene, da sempre, nella stessa mensola sopra il telefono. La chiave era lì, anche quella mattina e, grazie a quella piccola chiave, Mario riesce ad uscire calandosi dalla finestra. Verso le 13.00 arriva una vicina che dice di sentire un uomo che chiama a gran voce "Nella, Nella!". E' Mario. E' sicuramente lui. Gianna e la mamma Nella ne sono convinte. La mamma di Gianna segue la vicina di casa e dalla finestra di casa sua riesce finalmente a vedere Mario. Mario riesce a salvarsi grazie all'aiuto di alcune persone che con funi e strisce di stoffa lo fanno entrare in casa loro. "Il babbo restò a dormire lì quella notte. Arrivò a casa la mattina successiva, stanco e sporco di fango. Per la prima volta vidi piangere disperatamente mio padre. Era appoggiato al bordo della vasca". Gianna è emozionata, quasi commossa. Sono ricordi che fanno male, tirano fuori emozioni nascoste in fondo al cuore. Mario piange perché in quella mattina del 4 Novembre ha rischiato la vita e ha perso tutto quello che aveva costruito in 40 anni di duro lavoro. La storia del laboratorio di Mario finisce con l'alluvione del 1966. Oggi, 50 anni dopo, in quel laboratorio artigiano c'è Andrea, figlio di Gianna e nipote di Mario. 50 anni dopo, in Via Lanza 64/A, ri-nasce "Il Lavoratorio", un luogo speciale di "Teatro, Danza e Affini". Nonno Mario ne sarebbe orgoglioso.

Luigi, "Tre uomini in barca" 

Il 4 Novembre del '66 Luigi ha poco più di 19 anni. "Il 5 Novembre di quell'anno avrei iniziato l'anno accademico alla Facoltà di Lettere, con indirizzo Lettere Classiche" racconta Luigi. "Giocavo a calcio, all'epoca. Giocavo nel Peretola e la mattina del 4 Novembre sarei dovuto andare ad allenarmi". A Firenze piove ininterrottamente da giorni. Prima di attraversare la città a bordo della sua mitica Lambretta, Luigi decide di chiamare il campo sportivo di Peretola per capire se il campo fosse agibile o meno. "Quella fu l'ultima telefonata che riuscii a fare". Dai giornali radio arrivano le prime notizie delle esondazioni dell'Arno nelle zone a monte di Firenze. "Non c'era cultura della comunicazione all'epoca, si stava a quello che diceva la radio, ma ancora non avevamo assolutamente percezione di cosa stesse succedendo". Luigi abita a Badia a Ripoli, quando ancora Viale Europa non c'era. Lo stavano costruendo proprio in quel periodo. Nel corso della mattinata si inizia a percepire che la situazione è seria ma ancora non si è consapevoli della tragicità. Insieme ad altri ragazzi, Luigi s'incammina verso il Viale Europa in costruzione. "Era ancora tutto sterrato. L'acqua arrivava lì, era un bagnasciuga". La situazione è assurda. "Si sentono persone che gridano spaventate, qualcuno sale sul tetto e spara colpi in aria con il fucile da caccia per richiamare l'attenzione". A Firenze è un totale abbandono. La città non è preparata a tutto questo e si trova arresa di fronte a quel disastro. "Con i ragazzi salimmo su un palazzo in costruzione. Mentre salivamo ci guardavamo intorno. Lì realizzai. Era una situazione paradossale, assurda, inedita, totalmente al di fuori delle nostre capacità di immaginazione. Dalla cima del palazzo in costruzione vidi che Viale Giannotti e Via Erbosa erano un fiume. La fabbrica Longinotti era sommersa". Luigi torna a casa per pranzo. E' giorno di festa e si mangia tutti insieme. I giornali radio danno notizie sempre più preoccupanti e inquietanti. Le linee telefoniche erano saltate. Nel pomeriggio Luigi torna su Viale Europa per capire la situazione. Adesso c'è un sacco di gente su Viale Europa. "Mi si avvicinò un uomo, sulla quarantina. Era molto agitato, aveva le lacrime agli occhi. Ci disse che sua sorella con due bambini molto piccoli, di cui uno nato da poco, abitava proprio sul Lungarno e lui voleva in tutti i modi tentare un salvataggio". Luigi ascolta le sue parole poi qualcuno dice di conoscere un nobile appassionato di barche che abita lì vicino.  "L'uomo, che poi scoprii essere un metalmeccanico, mi chiese di andare con lui per dargli una mano a caricare la barca sul suo furgoncino". Il nobile presta loro un barcone da pesca di otto metri circa, molto pesante. Un barcone di legno con i remi che Luigi e il metalmeccanico caricano sul furgoncino e portano su Viale Europa. "Mi chiese di salire con lui per aiutare a salvare la sorella con i bambini". Luigi non si rifiuta e sale sulla barca. "Mentre stavamo per partire si avvicina un altro uomo. Era inquieto, agitato. Ci prega di farlo salire". La situazione è assurda, paradossale. Lo fanno salire. Adesso sono in tre a bordo della vecchia barca di legno. "Tre uomini in barca, come il famoso romanzo", dice Luigi scherzando. Poi continua il racconto: "Quest'uomo ci disse di essere un medico, avrà avuto cinquant'anni. Ci raccontò che stava per coronare il sogno della sua vita, quello di sposare la sua compagna, una donna portoghese. Ci aveva messo una vita ad avere tutti i fogli e non poteva perderli. I fogli per il suo matrimonio erano affissi nella chiesa di Viale Giannotti ed è lì che lui voleva andare". Luigi si ferma per un attimo. Alza gli occhi e continua: "So che può sembrare una storia strampalata ma è la pura verità. Furono una serie di circostanze che questo stato di cose irreale rese possibili". Ci sono tre uomini su una barca in un fiume che non è un fiume, ma sono le strade della città. "Nessuno di noi conosceva la barca, né tantomeno sapeva remare". Ma questo non basta a fermare i tre. Remano fino quasi alla riva dell'Arno senza mai incontrare corrente. "Remavamo nelle strade perpendicolari al fiume, in maniera che le case fossero uno scudo rispetto alla corrente. Sentivamo un frastuono infernale, sembrava quasi un bombardamento continuo, un rumore inquietante. Ma continuammo a remare per un tratto di Viale Europa per poi svoltare in via Erbosa. Abbiamo poi imboccato via Datini dove l'acqua dell'Arno aveva raggiunto i 5 metri di altezza. La gente ci urlava dai terrazzi e dai tetti dei palazzi, ci insultavano. Volevano essere imbarcati ma noi non potevamo, non era possibile". Luigi abbassa lo sguardo e continua: "Questo nostro incedere lentamente in mezzo a quelle grida, fu pensoso". In Piazza Gualfredotto emergono dall'acqua solo le cime degli alberi e qualche tetto degli autobus. I tre remano nella strada che da Piazza Gualfredotto porta sul Lungarno. Perché era lì che abitava la giovane donna con i suoi bambini. Appena imboccata la strada vedono che all'angolo con il Lungarno l'acqua fa uno scalino. L'acqua che arriva dall'Arno, corre ad una velocità spaventosa portando con sé tutto. "Dopo poco la barca fu presa dalla corrente, fummo trascinati via." La situazione non era più gestibile. Ci sdraiammo perché i fili della corrente, che all'epoca andavano da parte a parte della strada, ci avrebbero fatto da ghigliottina. Mentre la barca procedeva, l'uomo riconobbe l'abitazione della sorella. Arrivano sotto l'abitazione, si aggrappano alle persiane e entrano dalla finestra. La sorella con i piccoli è salita all'ultimo pieno per mettersi in salvo. "Si ebbe la pazzia di imbarcarli", racconta Luigi ancora incredulo. "I bambini erano terrorizzati, strillavano. Noi provammo a remare contro corrente ma i remi si spezzavano. Aggrappati alle persiane portammo la donna con i bambini in un'abitazione vicina. Poi facemmo una scelta poco intelligente". I tre decidono di lasciarsi trascinare fino in Piazza Gavinana. "Da Piazza Gavinana si prende Viale Giannotti e si torna a casa". Ma i tre, arrivati in Piazza Gavinana si accorgono che la piazza è un vortice, l'acqua fa un mulinello dove arriva di tutto. "Venimmo trascinati in Via Salutati e ci accorgemmo che, all'altezza dell'incrocio con Via Ripoli, l'acqua faceva un muro di un metro. Istintivamente ci aggrappammo ai fili del filobus e provammo ad andare contro corrente". La situazione è drammatica. Risalire la corrente è impossibile. In mezz'ora riescono a percorrere poco più di dieci metri. "Ci buttammo verso la parete di una casa evacuata e riuscimmo ad infilarci dentro, passammo la notte lì. Non sapendo come sarebbe stata la situazione il giorno seguente, legammo la barca fuori dalla finestra".  Il giorno successivo l'acqua defluisce. "La barca penzolava dalla finestra", racconta Luigi sorridendo. I genitori di Luigi, non avendo sue notizie, lo danno per disperso. "Ho avuto incubi per molto tempo", confessa Luigi. "Abbiamo avuto fortuna, ancora oggi non so spiegarmi come ci siamo riusciti".  Questa strampalata storia del 4 Novembre è a lieto fine. Luigi e gli altri tornano a casa percorrendo le strade di fango che l'ondata di piena aveva lasciato.

Franco e la "Mukki"

Franco lavora alla Centrale del Latte e il 4 Novembre del 1966, alle 4 di mattina, prende il suo furgone e parte per la consegna del latte, come tutte le mattine. "Dovevo arrivare all'Isolotto. Attraversai l'Arno da Ponte alla Vittoria. Pioveva da giorni in città. Poco più avanti, percorrevo via del Pollaiolo, quando un tombino mi scoppiò davanti, in mezzo di strada". Franco si ferma e cambia direzione. Arriva vicino ai lungarni e si accorge che stavano mettendo le transenne. "Lì mi accorsi che stava accadendo qualcosa ma la situazione non era chiara. Decisi di non terminare le consegne e tornai in Centrale. Raccontai ai colleghi che l'Arno era in piena e che un tombino mi era scoppiato davanti al furgone". I colleghi di Franco ridono, lo prendono in giro. Poco dopo rientra un altro collega, racconta che in Piazza Ferrucci c'è un autobus pieno d'acqua. I colleghi che prima ridevano di Franco, si fanno seri. Adesso ci credono e la paura inizia a farsi sentire. "I ragazzi che erano usciti per le consegne tardavano a rientrare in centrale". In Centrale si continua a lavorare. C'è da fare una consegna, si deve portare il latte ai Carabinieri in Piazza Stazione. "Partirono in due dalla Centrale. Arrivarono in Piazza della Stazione e lì si trovarono davanti una marea d'acqua. Era arrivata l'ondata di piena". I due scendono dal furgone e si mettono in salvo sulle scale di piazza della Stazione. L'acqua riempie il furgone. Fa impressione vederlo così, resta fuori poco più del tetto. In centrale arriva la notizia: "L'Arno ha dato di fuori, è esondato". Il Sindaco Bargellini indica la Centrale del Latte come luogo di ristoro per tutte le persone che sono arrivate in città a dare una mano. "In quei giorni abbiamo dato da mangiare a 300 persone. Arrivavano 150 persone a mezzogiorno e altrettante alle 13.15. Arrivavano coperti di fango, si lavavano da noi". Franco pochi giorni dopo ha una consegna in centro. L'acqua è defluita, le strade sono sgombre e le botteghe sono da rifornire. "Passai davanti al Teatro Verdi con il furgoncino. Alla vista del furgone della Centrale del Latte, la gente iniziò ad urlare. Si avventarono, volevano il latte. Io scesi dal furgone, tirai su i bandoni del camion e mi feci da parte. In un quarto d'ora svuotarono il camion". Franco sa di aver fatto la cosa giusta, non poteva certo mettersi a discutere con tutte quelle persone. In Centrale avrebbero capito. "In momenti come quelli serve essere uniti e il direttore generale mi disse: Franco, hai fatto quello che dovevi".

Cose da fare a Firenze